Contenuti
Introduzione
Cosa accade qualora un soggetto abbia dovuto scontare un periodo di reclusione, in carcere o agli arresti domiciliari, e poi sia stato assolto da ogni accusa? Ha diritto ad essere risarcito per i giorni di reclusione trascorsi? E se si a che condizioni e in che modo può agire?
Nel prosieguo della trattazione si risponderà ad ognuno dei quesiti citati analizzando il tema del risarcimento del danno per ingiusta detenzione e fornendo indicazioni fondamentali affinché chi, purtroppo, si trovi a subire questa terribile situazione, possa tutelare la propria posizione giuridica nel modo più opportuno.
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Inquadramento dell’istituto
Il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, in base al disposto dell’art. 314 c.p.p., consente di ottenere un risarcimento, da parte dello stato, al soggetto che, imputato o indagato in un procedimento penale, abbia dovuto subire ingiustamente l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari ovvero della custodia cautelare in carcere.
È bene distinguere, in principio di analisi, la riparazione per ingiusta detenzione, che come detto ricorre nell’ipotesi di una misura cautelare detentiva illegittimamente subita, dalla riparazione dell’errore giudiziario che, invece, in base al disposto degli artt. 643 e ss c.p.p., ricorre qualora un soggetto condannato con sentenza definitiva venga poi prosciolto a seguito dell’esperimento vittorioso di un’azione di revisione della condanna.
Entrambe le ipotesi sono assimilate dal diritto della vittima ad essere risarcita per il tempo illegittimamente trascorso in stato di detenzione; in questa sede ci si occuperà solamente della riparazione per ingiusta detenzione.
L’art. 314 c.p.p. prevede due ipotesi di ingiustizia, una detta sostanziale e l’altra detta formale.
L’ingiustizia sostanziale
L’ingiustizia sostanziale, ex art. 314, 1° c.p.p., si verifica quando l’imputato è stato assolto con sentenza irrevocabile per un motivo escludente in toto la responsabilità; l’imputato era cioè assolutamente innocente per il reato contestato.
Le formule assolutorie che devono ricorrere sono le seguenti:
– perché il fatto non sussiste;
– per non aver commesso il fatto;
– perché il fatto non costituisce reato;
– perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Sono poi parificate alla sentenza di assoluzione, ex art. 314, 3° c.p.p., il provvedimento di archiviazione emesso a conclusione delle indagini preliminari e la sentenza di non luogo a procedere al termine dell’udienza preliminare.
Qualora pertanto un soggetto abbia dovuto scontare un periodo di detenzione, in carcere o agli arresti domiciliari, ma poi sia stato dichiarato innocente o sia stato destinatario di un provvedimento di archiviazione (che implica come l’accusa ritenga non responsabile l’indagato e rinunci ad agire nei suoi confronti), avrà per questo diritto ad essere risarcito da parte dello stato.
L’ingiustizia formale
L’ingiustizia formale, ex art. 314, 2° c.p.p., ricorre invece nell’ipotesi in cui la custodia cautelare sia applicata illegittimamente a prescindere dall’esito, sia esso di assoluzione o di condanna, del procedimento: in presenza di una decisione irrevocabile che accerta come la misura custodiale sia stata emessa o mantenuta in assenza delle condizioni di applicabilità, previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., il soggetto ad essa sottoposto avrà diritto al risarcimento del danno.
Esemplificando occorre dunque, per il ricorrere dell’ingiustizia formale, una decisione irrevocabile che sancisca:
– la mancanza dei gravi indizi di colpevolezza, necessari ex art. 273 c.p.p. per l’applicazione di una misura cautelare;
– che il delitto ascritto era punito con una pena tale da non consentire, ex art. 280 c.p.p., la custodia cautelare;
– che il delitto ascritto non legittimava l’applicazione della custodia cautelare in quanto estinto per prescrizione.
Qualora ricorra una di queste ipotesi di illegittimità della misura cautelare la vittima ha quindi diritto ad essere risarcita anche in caso condannata.
Proprio in ragione di ciò, inoltre, qualora la misura cautelare sia stata disposta per un periodo di tempo superiore all’entità della pena prevista nella sentenza di condanna sarà da considerarsi comunque illegittima e il condannato avrà diritto ad ottenere la riparazione per i giorni di reclusione ingiustamente scontati.
È opportuno sottolineare, infine, come a seguito della sent. n. 109/1999 della Corte Costituzionale la riparazione per ingiusta detenzione si applica anche nelle ipotesi delle cosiddette misure precautelari, ossia arresto in flagranza e fermo.
Se quindi un soggetto viene fermato o arrestato in flagranza e queste misure non vengono poi convalidate avrà diritto alla riparazione per ingiusta detenzione; stesso dicasi per l’ipotesi in cui la misura precautelare sia convalidata ma poi l’imputato venga dichiarato innocente con provvedimento definitivo per il reato contestatogli.
Cause ostative alla riparazione
L’art. 314 c.p.p. disciplina puntualmente delle cause al ricorrere delle quali la riparazione per ingiusta detenzione non può essere concessa.
Il primo comma dell’articolo in esame prevede infatti che l’imputato non può beneficiare della riparazione se ha dato causa o ha concorso a dare causa all’ingiusta detenzione per dolo o colpa grave.
Possono configurare il dolo o la colpa grave il modo in cui l’imputato esercita i propri diritti di restare in silenzio o di rispondere il falso in sede di interrogatorio.
Per quanto concerne l’esercizio del diritto a rimanere in silenzio questo può configurare un’ipotesi di colpa grave qualora l’imputato ometta di rivelare circostanze favorevoli a lui unicamente note che avrebbero evitato la detenzione; esemplificando: Tizio unico sospettato per l’omicidio di Caio viene sottoposto a custodia cautelare in carcere anche se in possesso di un alibi inattaccabile, solo a lui noto, che lo avrebbe scagionato.
Se ricorre un’ipotesi di colpa grave, che ha concorso a dar luogo alla detenzione, è dunque preclusa la possibilità per l’imputato di ottenere la riparazione.
Per quanto concerne le dichiarazioni false la giurisprudenza è concorde nel ritenere che le stesse configurino un’ipotesi di condotta dolosa e, di conseguenza, se riguardanti circostanze la cui veritiera conoscenza avrebbe evitato la detenzione, escludano in radice la possibilità di beneficiare della riparazione.
Esemplificando: se Tizio, per evitare che la moglie Caia sia accusata di omicidio, confessa falsamente l’omicidio di Sempronio, in realtà ucciso dalla moglie, e viene sottoposto a custodia cautelare in carcere non potrà poi, qualora la verità venga scoperta, agire per ottenere la riparazione dell’ingiusta detenzione.
Se ricorre un’ipotesi di dolo, che ha concorso a dar luogo alla detenzione, è dunque preclusa la possibilità per l’imputato di chiedere la riparazione.
L’art. 314, 4° c.p.p., prevede poi un’ulteriore causa ostativa.
Il diritto alla riparazione è infatti escluso per quella parte di custodia cautelare che è stata computata ai fini della determinazione della quantità di pena detentiva che avrebbe dovuto essere scontata dall’imputato che è risultato poi essere condannato.
A quanto ammonta
La somma da corrispondere a titolo di riparazione viene determinata dal giudice tenendo in considerazione sia un criterio aritmetico, determinato dalla legge, sia valorizzando le circostanze del caso concreto.
Per quanto riguarda il criterio aritmetico risulta fondamentale il disposto del secondo comma dell’art. 315 c.p.p. che prevede come l’entità della riparazione non possa eccedere i 516.456,90 euro.
Da questa cifra, aritmeticamente, si ricava a quanto ammonta la somma prevista per un giorno di ingiusta detenzione: si deve, in primis, considerare la somma massima indicata come quella prevista per 6 anni di reclusione (essendo questo il termine massimo stabilito per la durata della custodia cautelare in carcere) e, dividendo di conseguenza 516.456,90 per 2190 giorni (ossia sei anni tradotti in giorni), si ottiene la cifra di 235,82 euro.
La somma quindi che si attribuisce per un singolo giorno di reclusione ammonta ad euro 235,82; esemplificando per due anni di illegittima custodia cautelare in carcere il danneggiato avrà diritto a 172.148,60 euro (ottenuti moltiplicando 235,82 per 730 giorni).
Dette considerazioni valgono per l’ingiusta reclusione subita per una illegittima custodia cautelare in carcere; per quanto concerne la misura degli arresti domiciliari, stante la minore afflittività della stessa, la giurisprudenza tende a riconoscere una somma inferiore che si assesta sui 117,92 euro, ossia la metà di 235,82 euro.
La somma così aritmeticamente quantificata, tuttavia, può poi essere aumentata o diminuita dal giudice in virtù di una valutazione discrezionale che valorizzi tutte le circostanze peculiari del caso concreto, tenendo conto, in particolare, delle conseguenze pregiudizievoli patite nella sfera personale e professionale.
È bene sottolineare che, qualora il giudice intenda discostarsi dalla cifra aritmetica predetta, debba motivare spiegando espressamente quali siano le ragioni concrete poste a fondamento di tale variazione.
È importantissimo chiarire, inoltre, come tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali patiti a causa dell’illegittima detenzione possano essere risarciti anche in misura superiore a quella prevista dall’art. 315 c.p.p. (in tal senso Cass. n. 2050/2004; Cass. n. 7787 del 2016; Cass. n. 37138/2018), a condizione però che la vittima li provi in ogni loro preciso aspetto (secondo le normali regole risarcitorie).
Una particolare fattispecie di tutela in forma specifica è, infine, prevista per il lavoratore; a quest’ultimo è infatti concesso il diritto, ex art. 102 bis disp. att. al c.p.p., ad essere reintegrato nel posto di lavoro perso a causa della reclusione.
Ingiusta detenzione: come presentare domanda
La domanda di riparazione, in base al disposto dell’art. 315 c.p.p., deve essere presentata nel termine di due anni dalla data in cui: la sentenza di assoluzione o condanna è divenuta irrevocabile; la sentenza di non luogo a procedere è divenuta inoppugnabile ovvero, infine, è stato notificato il provvedimento di archiviazione.
Il luogo presso cui concretamente depositare l’istanza, corredata da tutti i documenti che si intendono depositare, è rappresentato dalla cancelleria della Corte d’appello nel cui distretto è stato emanato il provvedimento divenuto definitivo.
A seguito della presentazione dell’istanza la Corte fissa udienza in camera di consiglio, dandone comunicazione, oltre che all’interessato, al PM e al ministro del Tesoro presso l’avvocatura dello stato competente in base al distretto di Corte d’appello; la decisione sulla domanda è emanata, dopo attento studio della questione e dei documenti depositati, con ordinanza che, qualora sfavorevole, può essere impugnata tramite ricorso per cassazione.
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